Il 19 ottobre 1992 il Comune di Fano concesse a don Paolo il premio “La Fortuna d’oro”, per sottolineare il lavoro svolto e i meriti acquisiti. Dopo aver letto la motivazione del premio, il sindaco Giuliano Giuliani aggiunse queste parole:
“Io oso sperare che tra i suoi amici, non coetanei, don Paolo voglia enumerare anche chi vi parla. Proprio in vista di questo incontro sono riandato con la memoria ad una lontana estate del ‘49 o ’50, se la memoria o mi inganna. Insieme ad un gruppo di ragazzotti e di adolescenti andammo i gita al fiume Metauro. Allora c’era qualche giovanotto che dedicava un po’ del suo tempo ai ragazzini, agli adolescenti, per aiutarli, come allora si diceva, a crescere dal punto di vista umano e religioso. Ebbene, durante questa passeggiata, a un certo punto Paolo mi confidò, con tanta semplicità ma con tanta fermezza, che, alla riapertura delle scuole, sarebbe entrato in seminario, perché aveva avvertito la vocazione di farsi sacerdote. Francamente questa confidenza mi ha gratificato, perché ho capito che nonostante la differenza di età - tra me e lui corrono circa dieci o undici anni - che don Paolo mi considerava suo vero amico. Questa amicizia, questo sentimento di amicizia non è mai venuto meno, nonostante gli anni passati - ne sono passati tanti caro don Paolo, da allora -, e nonostante la lontananza - sono migliaia di chilometri -, anzi direi che si è rafforzata. Questa sera veramente con grande gioia, io, come sindaco di Fano, mi accingo a consegnarti la “Fortuna d’oro” quale espressione autentica della città di Fano, di ammirazione, di apprezzamento della tua opera umanitaria a servizio di popolazioni spesso diseredate e affrante dalla miseria e anche dalla dittatura militare, come tu hai ricordato in una lettera di risposta al sindaco Baldarelli, quando ti disse che il comune di Fano si apprestava a conferiti questo riconoscimento. La prova migliore di questa tua dedizione, di questo tuo impegno civile, oltre che religioso, è data dal fatto che quando undici anni fa chiedesti la cittadinanza brasiliana ti venne rifiutata perché l’autorità del tempo, totalitaria e militare, te la negò dicendo che eri una persona di cattiva condotta. È un fatto che ti fa onore, caro don Paolo, perché dimostra in maniera direi irrefutabile il tuo attaccamento ai valori di libertà, la tua dedizione per il riscatto anche economico di quelle lontane popolazioni”.
Alle parole del Sindaco, Giuliano Giuliani, Paolo rispose con questo discorso, nel quale delinea la sua vita ed i principi che hanno guidato la sua opera come missionario.
Voi dovete pensare che Giuliano Giuliani è stato il mio Delegato Aspiranti, e ha una certa responsabilità sulla strada che ho fatto. Mi ricordo che da ragazzini lo ammiravamo molto e seguivano questo esempio di persona dedicata alla nostra educazione.
Io vi ringrazio. In questo momento è difficile rimanere tranquillo, sereno ed esprimere tutto quello che sento. Ma scusate: comincio a leggere perché a parlare di getto non ci riesco bene.
Per me questa data del 19 ottobre è una data molto importante, perché 27 anni fa, proprio il 19 ottobre, partivo da Genova per andare in Brasile. E senz'altro in quel tempo andavo un po' all'avventura. Mi sentivo chiamato a lasciare la mia terra per essere missionario, missionario in un mondo che non conoscevo, tra gente che non conoscevo. Oggi, 27 anni dopo, mi viene chiesto di parlare della mia esperienza e vi confesso che non è molto facile.
Sono andato in Brasile come missionario, cioè per compiere una missione a cui mi sentivo chiamato. All'inizio credevo che avrei dovuto portare qualcosa: il messaggio cristiano, rivestito, incarnato in una cultura. Pian piano mi sono reso conto che il contatto col popolo mi arricchiva, mi trasformava. Io che ero arrivato per portare qualcosa, stavo ricevendo molto di più da quella gente. Mi sono reso conto che la missione era e continua ed essere quella di servire la gente. Scoprire tutto quello che di bello, di valido c'è nella cultura, nella religione dei brasiliani. cosciente che Dio è presente, si manifesta e lavora anche quando noi non ci siamo. Dopo 27 anni mi accorgo di essere uno straniero. Straniero anche a Fano, perché il mio punto riferimento adesso è il Brasile, e molti problemi che voi vivete mi trovano distante, assente e non partecipante. Però mi sento straniero anche in Brasile, questo è un trauma. Non solo per il mio accento fanese, che non ho perduto e non voglio perdere, ma perché la mia storia è e sarà sempre diversa da quella della gente con cui vivo. Per servire la gente, per stare insieme con la gente, ho fatto molte cose, ma soprattutto ho cercato di ascoltare, di vedere, di capire questo popolo. Questo popolo brasiliano che è un miscuglio di razze e di culture differenti: la india, la negra, la bianca. Capire questo popolo esuberante ma continuamente ridotto al silenzio, la cui cultura viene molte volte ridotta a un po' di folklore per i turisti, capire questo popolo ricco ma impoverito dal colonialisti di ieri e di oggi. Questo popolo fiero per quello che gli è specifico in cultura, in religione, ma continuamente umiliato da quelli che non vogliono ascoltare e capire.
È sorta, proprio per rispondere alle esigenze della popolazione, negli anni '70, una scuola professionale: la scuola professionale 1° Maggio. E qui vorrei aprire una parentesi per manifestarvi un po' la difficoltà che a volte esiste per capire quello che stiamo facendo giù in Brasile. Questo nome della scuola professionale 1º Maggio era stato scelto dagli alunni, da operai brasiliani, per ricordare il giorno dei lavoratori. In Brasile la festa del 1° Maggio è stata sempre organizzata dal Governo, anche al tempo della dittatura militare, e non ha mai avuto un significato di celebrazione comunista. Ebbene, un gruppo italiano di Bologna ha smesso di aiutarci a partire da una visione italiana, perché ha ritenuto che fosse una scuola di tendenze marxiste, quando si cercava solo di aiutare la gente e per noi questa idea del 1° Maggio non aveva nessun significato di contestazione. Vedete come è facile giudicare gli altri a partire dai nostri preconcetti, dalle nostre visioni, dai nostri punti di vista.
Ebbene, è sorta questa scuola professionale ed ha funzionato per quasi 20 anni, anche dopo che avevo lasciato la parrocchia di Salvador per trasferirmi a Camaçari, a 40 km di distanza. Durante questi anni la scuola ha formato molti elettricisti industriali, idraulici, dattilografi, sarte. Ha insegnato a leggere e scrivere a moltissimi alunni. Soprattutto al tempo della dittatura militare, la scuola è diventata un centro di incontro, di studio, di solidarietà. Amici sacerdoti, avvocati, operai, sindacalisti venivano nella scuola per discutere, trovare appoggio, mangiare insieme un piatto di fagioli. E quello che è stato bello è che la scuola era inserita nella parrocchia, nel territorio, era diventata qualcosa non solo per me, per il prete, ma per tutta la gente.
C'è stato anche l'impegno di difesa degli invasori, cioè delle famiglie che avevano occupato terreni pubblici per costruire le proprie baracche. Invasori che hanno visto le proprie baracche distrutte dalla polizia. Mi ricordo di una invasione di 400 famiglie. Dopo un anno che queste famiglie avevano occupato un terreno pubblico, quando le cose erano già state migliorate, quando la vita sembrava ormai normale, quando sembrava che la comunità potesse respirare tranquilla, è arrivato l'ordine del sindaco e una forza di 200 poliziotti. In due giorni la favela è stata completamente distrutta. In quell'occasione sono riuscito a non essere arrestato perché il Cardinale del luogo è venuto anche lui a darci l'appoggio. Però, come ricordava il sindaco, quando ho chiesto al governo brasiliano la cittadinanza, mi hanno risposto, sia al tempo della dittatura - perché l'ho chiesta due volte - e sia dopo, che non ne ero degno per cattiva condotta.
L'impegno della scuola, l'impegno nella scuola, la difesa dei senzatetto, mi ha messo in contatto con gruppi di oppositori al regime. C'erano operai e universitari, cattolici e marxisti, e con tutti c'è sempre stato dialogo e rispetto reciproco. Un'amicizia che mi ha arricchito e che è rimasta anche dopo tanti anni. Tre di questi amici adesso sono deputati al Parlamento Federale, una è diventata il Rettore Magnifico dell'Università di Salvador, altri sono professori dell'Università, altri sono impegnati nella difesa dei diritti umani. Ma quello che ci unisce, anche se non sempre pensiamo nella stessa maniera, è una stima reciproca e il desiderio di lottare sempre per cambiare le strutture ingiuste del peccato.
La maggior parte del tempo di questi 27 anni li ho dedicati all'educazione, alla formazione. Mi sono sentito prete impegnato nell'evangelizzazione celebrando la Messa, annunciando la Parola di Dio, lavorando nella scuola professionale, protestando quando venivano distrutte le baracche delle famiglie, facendo amicizia con gli operai, con i disoccupati, gli universitari, i professori di università. Mi sono sentito educatore ed evangelizzatore non solo parlando ma anche compiendo gesti di solidarietà e di liberazione.
Ho cercato di aiutare gli operai, gli animatori di comunità, i catechisti, i giovani, a rendersi autonomi nel proprio impegno e nella propria fede. Mi sono impegnato così in corsi, incontri di formazione, di programmazione, di revisione, perché la gente diventasse sempre più capace di gestire la propria storia. Mi sono preoccupato perché la società e la comunità cristiana fosse costruita all'insegna della collegialità, della corresponsabilità, della condivisione, dello scambio.
Sono sempre più convinto che dobbiamo costruire un nuovo modo di essere Chiesa, soprattutto nelle comunità ecclesiali di base, dove la parola di Dio è luce che orienta il cammino, dove lo sguardo approfondito sulla realtà deve essere costante, dove la risposta alle sfide deve essere data da una comunità unita, dove il capo, il maestro, è il Signore e dove tutti sono fratelli, ciascuno dando una sua parte di collaborazione, secondo le proprie qualità. Una comunità dove il prete, il vescovo è un fratello, compagno del cammino, che serve e non comanda, che cerca di capire la ricchezza e la potenzialità del popolo.
L'impegno di costruire la comunità cristiana e una società nuova dove esista comprensione, condivisione, partecipazione, comunione ha significato animare incontri, dibattiti, riunioni. Fin dall'inizio ha significato accompagnare i gruppi con libretti che aiutassero a riflettere, a pensare, a imparare. All'inizio i libretti erano ciclostilati, adesso sono diventati libri stampati dalle editrici brasiliane (ne ho fatti più di 15, e qui ce ne sono alcuni che ho portato per la biblioteca). Libri che parlano a livello popolare del catechismo, della Bibbia, della teologia della liberazione, della storia del Brasile, dei popoli che vissero nel nostro continente prima della conquista. Sono libri nati un po' per caso, sarebbe meglio dire nati per necessità, proprio per aiutare la gente semplice a conoscere un po' più la storia, la teologia, la religione, per acquistare maggior indipendenza e autonomia. Libri sofferti, perché scritti nei ritagli di tempo, tra un incontro e l'altro, nel tempo che resta ad un povero prete con una parrocchia di più di centomila abitanti.
Mi è stato fatto osservare che molte volte, presentando la realtà in cui vivo, la dipingo con colori un po' neri, trasmettendo un certo pessimismo. È evidente che le cose non vanno bene: la povertà della gente povera aumenta sempre di più, la spogliazione del paese, del continente è sempre maggiore, non si vedono segnali di speranza all'orizzonte. Ma malgrado tutto noi abbiamo una speranza. Siamo dei testardi, la nostra è la speranza del chicco di grano che deve essere messo sotto terra e morire per dare frutto. La speranza che viene alimentata dalle piccole vittorie del popolo che si organizza per esigere i propri diritti, dalle comunità ecclesiali di base, dove la vita cristiana è gestita dai laici, dove persone analfabete animano il culto, spiegano il Vangelo, organizzano l'aiuto ai fratelli. Personalmente ho speranza e per questo ritorno in Brasile, per questo da 27 anni sono laggiù.
Mi è stato fatto osservare che a volte quello che dico può scandalizzare, rivelando errori che sono stati commessi dalla Chiesa (per esempio sulla schiavitù, nei 500 anni della conquista). Ebbene, non ho paura di parlare di queste cose perché vedo che la gente capisce, anche in Brasile; la gente è capace di comprendere e l'amore alla Chiesa diventa così più adulto, più maturo, più responsabile, direi più cristiano. Sugli errori commessi nel passato dobbiamo riflettere per non ripeterli oggi. E poi non dobbiamo mai aver paura della verità. E qui mi piace ricordare San Gregorio Magno che diceva: "È meglio suscitare uno scandalo che tacere la verità".
L'avermi dato questo premio è un segno di bontà da parte vostra e un grande onore per me. Io lo vedo anche come segno di fiducia nel lavoro che cerco di portare avanti, un segno di impegno, di condivisione del comune e del popolo di Fano. Segno che anche voi volete assumere, appoggiare questo servizio ai poveri, con l'educazione, la formazione, la vera liberazione.
Per questo premio, ma soprattutto per l'amicizia, per l'appoggio, per il vostro impegno che spero possa continuare, grazie”
19 ottobre 1992.